MASSIMO, operatore equipe Strada
“Negli ultimi tempi abbiamo notato, soprattutto al dormitorio Galgario, che la ‘soglia’ degli utenti si sta abbassando. Le situazioni sono sempre più complesse, difficili, incancrenite, e coinvolgono sempre di più ragazzi giovani. C‘è un aumento delle problematiche psichiatriche e nell’uso di so-
stanze, una situazione che ricorda quella dei primi anni 2000. Forse il Covid ha influito, ma potrebbe trattarsi anche di un’’ondata’ dovuta al cambiamento nel mercato delle sostanze: è ancora presto per dirlo”.
"Ci sono molti giovani in situazioni difficili: una situazione che ricorda quella dei primi anni 2000."
“In questo momento, a piano freddo non ancora avviato (partirà l’1 novembre e durerà fino al 30 aprile), sono 64 gli ospiti del Galgario.
A partire da novembre man mano aumenteranno, fino ad arrivare a 80.
Ovviamente il piano freddo, come sempre, farà emergere anche le
situazioni più complesse: quelle di persone che spesso sono per strada da tanto, e che è molto difficile agganciare perché finché le temperature non diventano proibitive non mettono piede in dormitorio.
Speriamo di riuscire a coinvolgerle sempre di più anche grazie alle tante attività e iniziative di ‘apertura’ del dormitorio, che contiamo di poter riprendere in pieno in primavera, una volta tornati -si spera- alla normalità”.
CHIARA, fisioterapista volontaria
"Ho smesso di lavorare la prima settimana di marzo 2020 per via dell’emergenza Covid, quindi ‘ero a casa a far nulla’ quando ho trovato su un gruppo social di fisioterapisti l’annuncio di Paolo [fondatore della Fisiotaskforce, la sua storia si trova qui] che chiedeva chi fosse disponibile a fare volontariato in una delle strutture create per ospitare i pazienti dimessi dagli ospedali ma ancora positivi", ci ha raccontato Chiara, 29 anni, fisioterapista. “Ho dato la mia disponibilità e Paolo mi ha inviato tutte le informazioni per poter iniziare a lavorare. Poi ci siamo incontrati per una formazione sulle procedure di sicurezza e protezione (vestizioni e svestizioni, logistica eccetera)".
"In generale, da parte dei volontari, c’era una gran voglia di dare una mano, in qualsiasi modo."
"Ho iniziato al Bes Hotel a metà aprile: all’epoca c’erano 90 pazienti, che poi sono diminuiti man mano fino a diventare, a metà maggio, solo 8. Fortunatamente non erano pazienti ‘messi male’ come quelli delle prime settimane. Molti faticavano a respirare, tossivano spesso ed erano deboli, ma ce n’erano anche di più ‘prestanti’, così li abbiamo divisi per livello e abbiamo iniziato a lavorare con gruppi di quattro pazienti per ciascun terapista.
I pazienti non vedevano l’ora di fare fisioterapia, per potersi muovere e anche per poter parlare con qualcuno, visto che erano chiusi tutto il giorno nelle loro stanze. In generale, da parte dei volontari, c’era una gran voglia di dare una mano, in qualsiasi modo: ricordo che in quei giorni anche una signora che era in pensione si era ‘rimessa il camice’ ed era tornata a fare fisioterapia.
Quando l’esperienza si è conclusa noi colleghi ci siamo ripromessi di vederci, alla riapertura delle pizzerie, per una pizzata”.
ERIKA, fisioterapista volontaria
"Tutto è iniziato con un'email girata da un collega riguardante questo gruppo di volontari che si stava formando. In quel momento la mia attività era -forzatamente- in pausa e quindi ho detto 'perché no'”, ci ha raccontato Erika, fisioterapista e volontaria del progetto Abitare la cura, che nei mesi di aprile e maggio 2020 ha messo a disposizione due alberghi per i pazienti ancora positivi al Covid dimessi dagli ospedali. "L'unico dubbio era sulla mia famiglia, ma ne ho parlato con loro e i bambini mi hanno detto 'Mamma se vuoi andare vai'. Ho fatto parte del primo gruppo che è partito, i primi cinque a entrare all'hotel Winter Garden di Grassobbio, dove erano ricoverati pazienti da poco usciti dalla terapia intensiva. Sul posto abbiamo fatto l'affiancamento con un medico di struttura per l'utilizzo dei DPI e dei vari ambienti, e con l'aiuto dell'ARIR -Associazione Italiana Fisioterapia Respiratoria- abbiamo creato ex novo una sorta di protocollo di trattamento fisioterapico per quelle persone, che soffrivano di una patologia mai vista prima".
"Il primo impatto devo dire che è stato abbastanza forte: avevamo a che fare con pazienti debilitati fisicamente ma anche psicologicamente."
"Il primo impatto devo dire che è stato abbastanza forte: avevamo a che fare con pazienti debilitati fisicamente ma anche psicologicamente. Ed erano ancora tutti positivi, quindi un minimo di paura c'era, soprattutto per la famiglia. Però è stato anche bello perché si è creato un gruppo di fisioterapisti molto affiatato: lavoravamo in delle specie di ‘palestrine’ dove facevamo fisioterapia ed esercizi con cinque pazienti alla volta. Questo ogni giorno, per tutti i 120 pazienti della struttura. Per loro era non solo un momento di cura fisica ma anche di ritorno alla socialità e di condivisione di quanto avevano vissuto.
Anche io ho sentito il bisogno di ‘buttare fuori’ le emozioni che stavo provando: ho iniziato a dipingere, uno dei dipinti rappresentava un operatore sanitario con delle girandole colorate al posto degli occhi, perché lo sguardo era l’unica via di contatto umano. Ora quando passo davanti al Winter Garden mi viene un sorriso, perché penso a quello che abbiamo passato lì dentro: è stato un periodo anche molto emozionante, anche se non posso dire che ‘mi manca’".
PAOLO, fondatore della Fisiotaskforce
Paolo, 47 anni, è il fondatore della Fisiotaskforce, un gruppo di fisioterapisti volontari creato all'inizio dell'emergenza Covid-19 allo scopo “semplicemente, di dare una mano”.
“Quando c'è stata la prima emergenza, a marzo del 2020", ci ha raccontato, "gli studi di fisioterapia hanno dovuto chiudere. Così ho iniziato a scrivere ai colleghi che conoscevo e ai miei studenti dell'Università di Milano Bicocca per chiedergli se erano disponibili come volontari per fornire un aiuto qui a Bergamo. In poco tempo la notizia si è diffusa a livello nazionale: nel giro di una settimana si sono offerti più di 200 fisioterapisti da tutta Italia. Per motivi di sicurezza e organizzativi, abbiamo scelto di costruire una squadra con quelli della bergamasca: una volta 'scremati' quelli che per per vari motivi burocratico/assicurativi etc. non potevano aderire, abbiamo costituito una squadra di 35 fisioterapisti, divisi tra progetto Abitare la cura (Bes Hotel di Mozzo e Winter Garden di Grassobbio) e Ospedale da campo degli Alpini. Io, oltre a lavorare all'Ospedale da campo, mi occupavo di coordinare tutte le squadre. Al Bes Hotel e al Winter Garden si lavorava in gruppi di 4 fisioterapisti per volta, che seguivano pazienti già dimessi dagli ospedali e in fase di riabilitazione: lì il lavoro consisteva nella riabilitazione motoria e respiratoria di chi era stato in terapia intensiva".
"Nel primo periodo facevamo anche le notti: non c'era davvero tregua."
"All'Ospedale da campo invece c'erano pazienti intubati e il lavoro era ancora più complesso: iniziavamo alle 7, e nel primo periodo facevamo anche le notti: non c'era davvero tregua. Dovevamo aiutare le persone in terapia intensiva a respirare meglio ed evitare problemi come le piaghe da decubito. Poi, quando tornavano coscienti, era il momento degli esercizi che li avrebbero riportati prima seduti, poi in piedi, poi a camminare: in alcuni casi ci voleva una settimana solo per riuscire a farli stare seduti. Per me è stata un'esperienza fortissima, sia professionalmente, perché c'era da lavorare in coordinamento con squadre venute anche da altre parti del mondo (ad esempio i russi, bravissimi e molto disponibili), che umanamente: ricordo l'emozione potente di quando i pazienti tornati coscienti per la prima volta, attraverso il tablet, potevano rivedere i propri cari che non sentivano da settimane... Durante il periodo da fine marzo a fine maggio abbiamo fatto fisioterapia tutti i giorni, per un totale di 412 pazienti seguiti”.
CATERINA, volontaria internazionale
Caterina ha 17 anni e studia al liceo Sarpi. Lo scorso luglio ha partecipato al progetto Giovani per il Mondo di Caritas: per due settimane ha lavorato come volontaria con la Fundatia Bucarestii Noi, una fondazione che sviluppa progetti per i bambini che vivono in alcuni dei quartieri più poveri di Bucarest.
"Avevo già visto situazioni di povertà estrema, ma non mi aspettavo di trovare case costruite in cartone a un'ora di aereo dall'Italia."
“Avevo già visto situazioni di povertà estrema, ma non mi aspettavo di trovare case costruite in cartone a un'ora di aereo dall'Italia. I bambini erano molto felici di stare con noi, anche se fare attività con loro per dieci ore al giorno non era facile. Alla sera eravamo molto stanche. Il venerdì li portavamo alla «fattoria», un luogo messo in piedi da una famiglia del quartiere dove aiutavano a raccogliere la verdura e giocavano con gli animali. Non erano per niente schizzinosi. Tengo, in particolare, a ringraziare Arianna, la coordinatrice del progetto, e tutti i ragazzi della fondazione, che ci hanno accolto come una famiglia, creando un clima di lavoro bellissimo”.
CHIARA, volontaria internazionale
Il 9 luglio scorso Chiara, 15 anni, è partita per la Romania con il progetto Giovani per il Mondo di Caritas. È rimasta a Chitila, una delle aree più povere di Bucarest, per due settimane. Lì ha collaborato alle attività della Fundatia Bucarestii Noi, una fondazione che sviluppa progetti per i bambini del quartiere. “Abbiamo tenuto una specie di CRE: i primi bambini arrivavano alle 7 del mattino, si stava insieme fino alle 17. C'erano anche tre fratelli, Luca, di 4 anni, Martina di 7 e Alex, il più grande, che vivevano lì perché semi-abbandonati dai genitori. Per loro Arianna, la coordinatrice dei progetti della fondazione, era una specie di mamma”.
"La cosa che mi è rimasta di più di questo viaggio sono gli sguardi."
Abbiamo chiesto a Chiara come ha fatto a comunicare con i bambini, visto che non conosceva la loro lingua. “In effetti era una delle mie più grandi preoccupazioni prima della partenza. Invece poi, anche se non saprei spiegare esattamente come, siamo riusciti a capirci. La cosa che mi è rimasta di più di questo viaggio sono gli sguardi: anche se alcuni arrivano da situazioni familiari disastrose il sorriso e la vivacità dei bambini di Chitila sono gli stessi che vedo nella mia sorellina di 7 anni”.
JONATHAN, volontario internazionale
“Siamo partiti per Atene a fine luglio: eravamo un piccolo gruppo, il nostro obiettivo principale era fare alcune lezioni di inglese, geografia e storia ai bambini che frequentano la Neos Kosmos Social House, un centro di accoglienza per famiglie in situazioni difficili”, ci ha raccontato Jonathan, che ha 24 anni e l'anno scorso ha partecipato al progetto Giovani per il Mondo di Caritas. “In realtà i nostri piani sono stati subito scombinati: i bambini erano molto casinisti, abbiamo capito che sarebbe stato impossibile fare didattica in modo tradizionale. Allora abbiamo avuto l'idea di esplorare insieme a loro la città. Anche se loro vivono lì, molte zone non le conoscevano: è stato bello scoprirle insieme”.
"Prima di partire pensavo anche io, come molte persone, che i profughi «bisognerebbe aiutarli nel loro paese».
La storia di Elias mi ha fatto cambiare idea."
Durante il viaggio Jonathan ha anche lavorato al fianco di un'associazione che si occupa di fare assistenza ai senzatetto (“È stato strano: sono dovuto andare fino in Grecia per accorgermi di cose che vedo tutti i giorni anche qui”) e ha conosciuto Elias, un ragazzo della sua età scappato dalla Siria: “Prima di partire pensavo anche io, come molte persone, che i profughi «bisognerebbe aiutarli nel loro paese». La storia di Elias mi ha fatto cambiare idea: se fosse rimasto là avrebbe dovuto arruolarsi nell'ISIS, e uccidere i suoi connazionali. Non è fuggito per scelta: non aveva nessuna alternativa”.
MAURIZIO, volontario
"Ho cominciato a fare volontariato una decina di anni fa, quando sono andato in pensione: avendo avuto una vita diciamo «favorevole» ho voluto fare qualcosa anche per gli altri", ci ha raccontato Maurizio, che tutti i mercoledì mattina dedica due ore del suo tempo alla gestione dei dati nel Centro di Primo Ascolto della Parrocchia di Sant'Anna.
"Avendo avuto una vita diciamo «favorevole» ho voluto fare qualcosa
anche per gli altri."
"Inserisco le schede nel computer, dove sono registrate tutte le persone che vengono qui a chiedere aiuto. Viveri, vestiti, contributi, eccetera. Il pane invece lo diamo senza registrazione, perché ne abbiamo tanto grazie al panificio Vanotti che sta qui in piazza e ogni sera ci regala quello che è avanzato". In dieci anni, Maurizio ha inserito nel computer le schede di tantissime persone. "Ne entrano almeno una decina al giorno, principalmente di due tipi: famiglie che hanno bisogno di aiuto per la spesa e senzatetto, che negli ultimi anni sono aumentati. Parecchie persone finiscono fuori casa, per un motivo o per l'altro. Almeno la metà di loro sono italiani".
MOHAMED, migrante
Mohamed ha 24 anni ed è uno dei primi profughi ad arrivare in Italia dalla Libia a bordo di un aereo, nell'ambito di un corridoio umanitario organizzato da Italia, Libia, ONU e CEI. È atterrato Fiumicino a dicembre, ed è stato poi trasferito a Bergamo insieme ad altre 11 persone. Noi l'abbiamo incontrato alcuni giorni fa. Con l'aiuto di Ahmed, operatore del centro d'accoglienza del Gleno che ci ha fatto da traduttore, abbiamo scambiato qualche parola con lui.
"In Yemen studiavo all'università per diventare commercialista, mi mancava solo un anno."
“Dopo essere fuggito dallo Yemen sono rimasto per un anno in Egitto e poi ho passato 8 mesi in Libia, in un carcere”, ci ha detto, “Mi hanno chiuso lì dentro perché mi trovavo clandestinamente nel paese. In Yemen studiavo all'università per diventare commercialista, mi mancava solo un anno ma sono dovuto andarmene perché la situazione era diventata troppo difficile. Non c'erano soldi, non c'era lavoro, la vita era sempre più pericolosa per via della guerra civile. Lì è rimasta solo mia mamma. La mia fidanzata è fuggita anche lei, si trova in Olanda. Ci sentiamo tutti i giorni via Whatsapp. Vorrei raggiungerla il prima possibile. Il mio piano per il futuro è riuscire a vivere una vita normale, semplice, avere una famiglia insieme a lei”.
ELEONORA, volontaria
Eleonora ha 17 anni e da marzo dell'anno scorso ha iniziato a fare volontariato in una mensa gestita da Caritas: "Non si tratta solo di servire dei «clienti»: le persone condividono le loro storie, si creano rapporti umani. Ad esempio c'è una signora anziana che mi racconta sempre dei mercatini che fa. Una sera è venuta con degli orecchini creati da lei e ne ho comprati un paio. Lei era felice. E anche io. Sarà scontato, ma il motivo principale per cui mi piace fare volontariato è proprio questo: la gratitudine che ricevo dalle persone che incontro".
"Le persone che vengono in mensa
ti raccontano le loro storie, si creano
rapporti umani."
"L'ora che passo in mensa è l'unica nella settimana in cui riesco a staccare da tutti i pensieri. Mi ha aiutato tantissimo a ridimensionare i miei problemi: spesso gli adolescenti vivono come dei drammi cose davvero da poco". Chiediamo a Eleonora se altre persone che conosce, incuriosite dai suoi racconti, hanno provato a seguire il suo esempio. "Sì, alcune amiche. Anche se in realtà nella mia generazione è difficile che qualcuno dedichi del tempo libero alla città in cui vive: viene vista come una cosa strana, perché si pensa che quei momenti debbano essere dedicati solo al divertimento, al godersi la vita. Ma spesso è un godimento superficiale, diverso da quello che si ricava conoscendo e relazionandosi con chi ha qualcosa di diverso da te". E in futuro? "Mi piacerebbe fare volontariato anche in carcere. I miei amici mi chiedono se non ho paura perché pensano sia pericoloso, ma in mensa ho conosciuto persone che fanno lavori socialmente utili come parte del proprio percorso di recupero e posso dire con certezza che sono esseri umani come tutti gli altri".