RAFFAELE, chef

“Oggi prepariamo le crespelle con ricotta e spinaci, la pasta con le lenticchie, la guancia brasata con patate e poi un dolce, il crème caramel”, ci spiega Raffaele Auriemma, chef e insegnante dell'Azienda Bergamasca Formazione. Raffaele è stato contattato tre anni fa dalla Cooperativa Ruah (che per Caritas Bergamasca gestisce i centri di accoglienza della bergamasca e le attività che coinvolgono i richiedenti asilo) per ideare un corso di cucina per gli ospiti di alcuni centri di accoglienza di Bergamo. “Mi hanno chiesto di studiare un menù multietnico e che non contenesse carne di maiale: così mi sono inventato il tacchino tonnato, perché di solito il vitello tonnato, anche se si chiama così, è fatto col maiale”. Il corso prevede sei lezioni da cinque ore: i ragazzi vengono divisi in quattro gruppi che si occupano di cucinare (primi piatti asciutti, zuppe, carne e patate, desser e contorno) o di lavare i piatti (“Chi fa il lavaggio però ha il privilegio di mangiare, alla fine della giornata, al tavolo, seduto e apparecchiato”).

"Mi sono inventato il tacchino tonnato, perché di solito il vitello tonnato, anche se si chiama così, è fatto col maiale."

“Le prime lezioni sono sempre le più complicate, perché bisogna spiegare ai ragazzi tante cose”, racconta Raffaele, “Ad esempio come tenere in ordine e pulita la cucina e le norme di sicurezza, sembra una banalità ma quando si lavora in cucina lavarsi le mani è fondamentale, e bisogna farlo in un certo modo, strofinandosi anche le unghie e l'interno delle dita”. Man mano che si va avanti “tutto diventa molto più semplice: i ragazzi imparano in fretta. E io con loro mi son trovato sempre in sintonia. Sarà anche perché ho girato tanto, per lavoro: sono stato in Africa, Asia... pensa che il mio primo figlio è nato a Saigon”.

TRALALTRO, un piccolo viaggio nel mondo della diversità

La 3A della scuola primaria Ghisleri

“Il primo laboratorio è stato settimana scorsa”, ci spiega Eleonora, maestra della 3B della scuola primaria “Ghisleri”, “il tema era il viaggio: ogni bambino ha pensato e disegnato quello dei suoi sogni”. I disegni sono appesi nel corridoio al primo piano della scuola: c'è la “Torre Eifer” di Viola, il missile su cui stanno per partire Paola e Maroua, e poi c'è il disegno di K., “Che si vede che è un po' diverso dagli altri: per esempio è l'unico in cui c'è una pistola”. H. è un bambino siriano, lui e i suoi genitori ora vivono a Bergamo.

"Il disegno di K. è un po' diverso dagli altri: per esempio è l'unico in cui c'è una pistola."

“È stato interessante: i bambini hanno potuto confrontare le immagini del loro viaggio con quelle di chi è stato costretto a partire, sia da nazioni in guerra che da luoghi molto più vicini, come il centro Italia in cui molte famiglie hanno dovuto abbandonare i loro paesi dopo il terremoto”. Mentre chiacchieriamo in corridoio, in 3A si sta tenendo la seconda sessione dei laboratori.

Il disegno di K.

Questa volta il viaggio lo si prepara davvero, partendo dalle valigie: due scatole di cartone con degli spaghi come maniglie. Roberta, che insieme a Laura guida i bambini nella preparazione, spiega come funziona: “Per prima cosa ci si divide in due gruppi. Ogni gruppo ha un caposquadra, che sceglie un oggetto che può essere messo nella valigia. Per ogni oggetto i bambini del gruppo dovranno votare se metterlo oppure no, perché nella valigia c'è spazio solo per dieci oggetti. Dovete tenere conto di tre cose importanti: il viaggio sarà molto lungo, sarà faticoso e probabilmente non tornerete, quindi bisogna portare anche cose che possano essere utili per stabilirsi in un nuovo luogo”. I banchi si muovono rapidamente (e chiassosamente), fino a formare due isole nella classe. I capigruppo saranno Giovanni e Fouad. Da ogni oggetto nascono discussioni rumorose: alcune scelte sono facili (nel primo gruppo solo una bambina vota per mettere nella valigia una Playstation), altre più complicate (lo spazzolino è fondamentale? Secondo alcuni bambini sì, secondo altri ci sono cose più importanti, come le medicine, l'acqua, una torcia, i soldi...).

Il gruppo due, capitanato da Giovanni

Alla fine, ogni gruppo deve motivare le sue scelte: “Perché il passaporto?”, “Per salire in aereo”, “Le medicine?”, “Perché se no non ci si può curare”, “La torcia?”, “Per non andare a sbattere”, “Per vedere”, “I vestiti?”, “Perché se un animale ci strappa i vestiti possiamo prenderne degli altri”, “Il cibo?”, “Perché altrimenti si muore”. “Ma lo sapete quanto tempo si può stare senza mangiare?”, “Due giorni!”, “No, due ore!”, risate. Le valigie sono pronte.

“Ero in aereo da sola dalla Bolivia stavo mangiando mi è rimasta una cosa in gola e una bambina mi ha dato una botta sulla schiena.”

Dopo gli oggetti da portare con sé, arriva il momento di scegliere le persone. Le mani si alzano, la prima scelta della maggior parte dei bambini sono la mamma e il papà, “perché se stiamo male sanno quanto sciroppo dobbiamo prendere”, “perché mica che possiamo guidare noi se no andiamo a sbattere la testa”, “perché possono difenderci”. “E se doveste partire senza di loro con chi vorreste partire?”, chiede Roberta. “Con tutta la terza A!”, dice Giovanni.

I due gruppi al lavoro, in 3A (e al centro Roberta)

I bambini vengono invitati a raccontare un episodio in cui si sono trovati in difficoltà e un amico li ha aiutati. “L'Eleonora eravamo sulla montagna c'era una salita e mi ha aiutato”. “Un amico Diego sono stato male al mare e mi ha portato dai genitori”. “Ero in aereo da sola dalla Bolivia stavo mangiando mi è rimasta una cosa in gola e una bambina mi ha dato una botta sulla schiena”. Famiglia, amici, e ricordi (che, come dice la maestra Mary, “al contrario dei disegni non possono sbiadirsi”) sono le tre “carte” che i bambini dovranno conquistare facendo tre giochi: il primo consiste nell'imparare a memoria il nome di un membro della famiglia di ciascun bambino del gruppo, il secondo nel riuscire a contare fino a cinque senza dire insieme lo stesso numero (gioco difficilissimo per cui bisogna capirsi cercando gli sguardi dei compagni di gruppo), il terzo nel ricordare come si cucina una cotoletta (“Ma surgelata?”, chiede una bambina della 3B). Sono quasi le quattro e mezza. Le valigie sono pronte. La prossima volta si parlerà di diversità, proprio a partire dal cibo: Roberta chiede ai bambini di origine straniera di portare una ricetta tipica del proprio paese. La campanella suona.

MARTA, serviziocivilista

"Ho sempre frequentato l'oratorio di Borgo Santa Caterina, lì vedevo spesso i ragazzi che facevano il servizio civile, un'esperienza che volevo fare anch'io. Così sono venuta in Caritas e mi sono iscritta". Marta ha 21 anni e da ottobre sta lavorando nel "suo" oratorio, lo stesso dove ha passato molti pomeriggi negli ultimi anni.

"Non avevo mai visto così tanti adulti fragili."

"È strano, perché ora vedo realtà e difficoltà del mio quartiere che pensavo non esistessero. Ad esempio, non pensavo che ci fossero così tante persone con problemi economici, o di separazioni. In generale, non avevo mai visto così tanti adulti fragili. Ho scoperto che le persone che hanno bisogno trovano nell'oratorio un luogo sicuro, protetto, dove poter lavorare come volontari. Parte del tempo lo passo con loro, e poi sto spesso con i ragazzi, noi che facciamo il servizio civile siamo diventati un po' i loro confidenti. Aiutiamo anche i bambini a fare i compiti, specialmente i figli di stranieri che vengono in oratorio per avere un aiuto che a casa non possono avere per ovvi problemi legati alla lingua". Chiediamo a Marta come sta vivendo quest'esperienza. "All'inizio mi era stato detto che sarebbe stato un anno di crescita, e in effetti la sto vivendo proprio così".

LARA, volontaria internazionale

“Siamo partiti da qui in pulmino: eravamo io, altre due ragazze, Roberta, la coordinatrice, poi don Emanuele e don Enrico. Nelle settimane precedenti avevamo fatto una serie di incontri di formazione per «fare gruppo» e anche per conoscere l'approccio di Caritas, che è basato soprattutto sull'ascolto e la comprensione degli altri”. Lara ha 25 anni e nel 2016 ha partecipato al progetto Giovani per il mondo: dieci giorni di viaggio per esplorare, in prima persona, le rotte dei migranti.

“La prima tappa è stata Gorizia, una città che ha vissuto sulla propria pelle il dramma della migrazione forzata. Lì ci ha ospitati don Alberto, un personaggio molto forte, e abbiamo incontrato diversi migranti e una storica. Abbiamo ascoltato storie presenti e passate. Poi, siamo partiti per Stoccarda e da lì a Calais, la tappa finale del viaggio”.
Alla periferia di Calais, città visitata da oltre 10 milioni di turisti l'anno, si trovava, fino a pochi mesi fa, uno dei più grandi accampamenti di migranti in Europa, circa 7000 persone.
“Mi ero preparata leggendo diverse cose su Calais, ma l'impatto è stato molto più forte del previsto. Il nostro gruppo è entrato nel campo la mattina del secondo giorno, accompagnato da Miriam, una ragazza di origine tunisina che fa parte di Secours Catholique.  Siamo stati ospitati nella tenda di un ragazzo iraniano, poi ci hanno raggiunti anche altri ragazzi. Ne ricordo bene uno, giovanissimo, che ci ha detto di avere il morale sotto zero perché la sera prima aveva provato, senza riuscirci, ad arrivare in Inghilterra. I ragazzi poi hanno chiamato «il vecchio» di quella zona del campo e ci hanno fatto da mangiare. Devo dire che è stato strano: quel giorno anche se era luglio faceva molto freddo, c'era vento, noi eravamo ben coperti e molti di loro in ciabatte o infradito, eppure ho avuto la sensazione di essere io la persona accolta. Quando sono uscita dal campo ho avuto bisogno di stare da sola per rielaborare quello che avevo vissuto”.

"Quando sono uscita dal campo ho avuto bisogno di stare da sola per rielaborare quello che avevo vissuto."

Lara ci racconta di un altro campo, vicino alla città di Dunkerque, dove una ragazza incinta aveva cercato fino all'ottavo mese di raggiungere l'Inghilterra, e di una notte in cui ha visto decine di ragazzi cercare di saltare su un camion per oltrepassare il confi
“Vedere queste cose, e conoscere le storie di persone che da anni vivono in condizioni durissime eppure con una fiammella di speranza sempre accesa, mi ha aiutato a ridimensionare anche alcuni aspetti della mia vita. Noi dobbiamo programmare, avere un obiettivo sempre più alto, mentre in quel campo ho trovato gente semplice, che ti apre la porta di «casa» senza nessun problema. La tensione trasmessa dai media è svanita in un attimo: ci hanno chiesto semplicemente come ci chiamiamo, che lavoro facciamo, abbiamo fatto discorsi molto normali”.

GIOVANNA, volontaria internazionale

“Siamo partiti per Atene in quattro, io, altri due ragazzi e Aldo, che guidava il nostro gruppo”, ci ha raccontato Giovanna, che nell'agosto del 2016 ha partecipato come volontaria al progetto Giovani per il mondo.
“Abbiamo lavorato principalmente presso la Neos Kosmos Social House, un progetto di housing sociale che si trova nel quartiere di Neos Kosmos. Eravamo in una zona abbastanza centrale della città, ma bastava fare pochi metri fuori dalla via turistica della città per trovare situazioni di povertà e degrado estremo”.
Alla Neos Kosmos Social House Giovanna e gli altri ragazzi si occupavano soprattutto dei bambini: “C'era una famiglia siriana con tredici figli, occupavano quasi tutto lo stabile. La loro storia mi ha colpito molto, perché il padre, che era già arrivato in Germania, è tornato in Siria per portare via anche il resto della famiglia. Solo che sono rimasti bloccati in Grecia. E ancora oggi si trovano lì”. Il viaggio di Giovanna è stato breve, “Dieci giorni: all'inizio anch'io pensavo che in così poco tempo non si riuscisse a fare praticamente nulla. Invece nel nostro piccolo siamo riusciti a dare una mano: abbiamo visitato due campi profughi, Skaramangas, che si trova in città ed è abbastanza organizzato, ed Elleniko, un accampamento di migliaia di persone nell'ex aeroporto di Atene. Lì abbiamo portato alcuni beni di prima necessità per chi ha bambini molto piccoli, come salviettine e borotalco".

"È stato molto emozionante, ma anche impressionante, perché in quel campo mancava davvero tutto."

"Appena arrivati siamo stati letteralmente circondati da bambini. È stato molto emozionante, ma anche impressionante, perché in quel campo mancava davvero tutto. E poi abbiamo anche affiancato alcuni progetti per i cittadini greci colpiti dalla crisi: nel quartiere di Omonia c'è un'associazione che si chiama Shedia -vuol dire «zattera»- che produce una rivista che viene venduta dai senzatetto, che tengono la metà del ricavato. Omonia è un quartiere molto duro: ci vivono tossici, prostitute, e gira la krokodil, una droga pesantissima e purtroppo molto economica ricavata dalle batterie”.
Il ritorno a casa per Giovanna “è stato, in un certo senso, un sollievo, perché mi sono resa conto che quello che è accaduto in Grecia poteva succedere anche a noi, ma per fortuna così non è stato. È vero che anche qui la crisi ha fatto molti danni, ma non m'è mai capitato di vedere una grande città ridotta così. E poi mi è piaciuto lo stile Caritas: anche a me che non vado in chiesa il messaggio di solidarietà, di incontro con l'altro per abbattere i pregiudizi, è risuonato molto, l'ho trovato davvero universale. Ho trovato belli anche i momenti di preghiera, che personalmente ho vissuto come occasioni di riflessione”.